giovedì 28 febbraio 2013

Le mamme di Schopenhauer e Nietzsche.

Molti filosofi hanno avuto un pessimo rapporto con la madre.


Tanto per citarne due: Schopenhauer e Nietzsche.
Tanto per citarne due che hanno avuto ogni sorta di psicosi, depressione, mitomania, fobia, fallimento dal punto di vista sentimentale, paranoia.

La madre di Schopenhauer era una scrittrice, da sempre amante della mondanità. Alla morte del marito (probabilmente si trattò di un suicidio), intrecciò parecchie relazioni, al posto d'indossare l'abito a lutto.
E lui, oltre a un pessimismo dilagante, sviluppò anche una forma non troppo sottile di misoginia: 
Il sesso femminile poteva essere chiamato il bel sesso soltanto dall’intelletto maschile obnubilato dall'istinto sessuale. Le donne potrebbero essere definite il sesso antiestetico.

La madre di Nietzsche, rimasta anche lei vedova da giovane, aveva invece rigidi principi morali ma scarsa cultura. E il figliolo scriveva:
Bontà materna. Certe madri hanno bisogno di figli felici onorati; altre di figli infelici: altrimenti la loro bontà materna non può manifestarsi.

Chissà se le mamme di Nietzsche e Schopenhauer


passavano il tempo a leggere, a sé e ai figli, procastinando l'ora del bagnetto, l'ora della pappa, l'ora della nanna, perse com'erano in criptoamori e fantatradimenti.





Li ninnavano alla loro maniera, sciorinando le varie posizioni all'interno della disputa sugli universali: ante rem, post rem, in re, ninna oh.




Proponevano giochetti semplici da risolvere, partendo dall'atomo democriteo arrivando al principio di indeterminazione di Heisenberg.





Li lasciavano riflettere sul tramonto della civiltà, mentre loro andavano a tuffarsi nel mare blu, occhieggiando obliquamente al bagnino.




Li interrogavano continuamente - chi è l'autore del mare? dio esiste? provamelo!, esiste il libero arbitrio? qual è il fondamento della disobbedienza civile? si può definire l'arte? - cercando in realtà una risposta, nei loro occhi senza domande, per continuare a vivere.





Li educavano alla gentilezza.
O alla paura.





Amavano, di quell'amore che si definisce incondizionato in quanto è in grado di reggere le frasi cattive che verranno, i tatuaggi, le bugie, i telefoni muti, gli occhi rossi, le partenze, le passioni sballate, i successi non condivisi, la solitudine, le porte sbattute, le espressioni facciali indifferenti, i piatti avanzati, la nostalgia per quella canzone sul bruco stonata insieme, i sogni non realizzati.

Chissà.










giovedì 21 febbraio 2013

La vita è una festa.

La vita è simile a una festa, diceva Pitagora.
Alcuni vi partecipano per la gloria e i soldi, altri solo per assistervi - e sono i migliori - perché cercano la verità.

La vita è simile a una festa, ma le feste possono essere molto divertenti o parecchio deludenti. 

Ci sono feste dove 
si è fatta tappezzeria, col vestitino carino e le gambe bloccate,
si è ballato con le amiche fino all'alba, sguaiate ed euforiche,
si è osservato l'uomo dei sogni che baciava un'altra, per tutta la notte, e si è finite per dare baci molli al primo che capitava, 
si è bevuto molto, e straparlando come tutti quelli che hanno bevuto molto, ci si è sentiti a un passo da qualcosa, forse una grande verità,
si è bevuto molto, e tutti sono andati via, e si è rimasti lì, ad accarezzare il proprio vuoto e stropicciarsi gli occhi senza espressione.

La vita è una festa, e va osservata dall'alto, per capire cosa succede in quella baraonda di donne dagli occhiali scuri, bambini che frignano e poi ridono, uomini che vanno di fretta.






La vita è una festa, e bisogna starle dentro, per come si è, e non per come si vorrebbe essere.
Coi pantaloni di una taglia in meno, che lasciano i segni sulla pancia, la maglietta a righe e le scarpe da ginnastica inzaccherate. Sussurrando segreti nelle orecchie di un cane. In preda alla ridarella. Salutando il verduriere, la quarantenne con le zeppe, il tabaccaio, il ragazzo col piercing sul sopracciglio, e vedere l'effetto che fa. Dicendo Sto bene se si sta bene, e Sto male se si sta male.





La vita è una festa, ma quando diventa noiosa, soffocante, smisuratamente difficile si può volgere lo sguardo altrove, e respirare.







La vita è una festa, ed è meglio andarci accompagnati se la vista è annebbiata e il passo incerto.
Con un coniglietto che odora di sonno. Stringendo forte una bambina che non ha paura. Giocando alle cose belle, una nuvola a forma di cactus, con le braccia all'insù, un cono gelato con sette gusti, una canzone che parla di esseri marini che gorgheggiano in sirenese.





La vita è una festa dove ci sono occhi che colano rimmel, bocche che aspirano fumo caldo, braccia irrigidite che allontanano, e una mano piccola che accenna un invito a ballare.







venerdì 15 febbraio 2013

"Un conto è far l'amore in un prato, un conto in un'automobile in una strada di Manhattan".

Marcuse, esponente della Scuola di Francoforte, sosteneva che la società degli anni '60 fosse totalitaria, in quanto riduceva l'uomo a una sola dimensione: quella del lavoro, della tecnologia, dei consumi.

L'individuo si trova a essere così alienato da non rendersi neppure conto della perdita di sé, soddisfatto com'è di avere tanti oggetti, numerosi followers su Twitter, sfilze di bar dove prendere l'aperitivo, collezioni di vestiti lowcost così deliziosamente shabbychic.

Gode paradossalmente di una non-libertà dall'aspetto "confortevole, levigata, ragionevole, democratica".
È schiavo ma crede di essere padrone.





Un conto è giocare con babyP nella sua stanza, dalla quale osserviamo la finestra di fronte, dove un altro bimbo osserva noi,
un conto è rotolarsi sulla spiaggia, e far volare fra le dita granelli di sabbia come fossero pulviscoli di stelle.









Un conto è chiudersi in una palestra insieme a un'umanità esaltata e sudata,
un conto è fare yoga sulla spiaggia.







Un conto è mangiare sushi, ancora freddo a causa dell'abbattimento, un pezzo geometricamente uguale all'altro, plastica gradevole che si scioglie in bocca,
un conto è aprire un riccio di mare, appena pescato, e buttarlo giù, senza pensare all'epatite.


Un conto è mettersi le scarpe, spuntate, con plateau, decolletè, stringate, che ancorano alla terra,
un conto è camminare a piedi scalzi, che permettono di volare.






Un conto è essere svegliati dal camioncino della spazzatura o dal signore che raccoglie le monetine dalle colonnine del parcheggio,
un conto è essere svegliati dal bacio di babyP.


Un conto è impiegare un'ora per cercare parcheggio in un multipiano sotterraneo,
un conto è abbandonare in maniera selvaggia il proprio mezzo di locomozione.






Un conto è avere ventimila mp3 racchiusi nell'iPod,
un conto è ascoltare, per caso, una canzone e avere una voglia matta di ridere e ballare.

Un conto è avere dei gioielli preziosi custoditi nella cassetta di sicurezza di una banca,
un conto è avere un solo bracciale, con cui poter anche conversare.






Un conto è nuotare in piscina, contando le vasche e sbattendo la testa contro il muro,
un conto è vedere i delfini, vincere la paura, e tuffarsi con loro.


Un conto è ricevere una stretta di mano, perché si è fatto un buon lavoro, una bella presentazione power point, un ottimo affare,
un conto è abbracciare ciò che non si fa farà mai avvolgere del tutto.







martedì 12 febbraio 2013

#1. Tutorial per diventare filosofi.

Dopo aver letto l'opinione di Claudio Rossi Martelli sulle mamme blogger, ho iniziato a dubitare, alla maniera di Cartesio, ovviamente.
Cercavo il fondamento indubitabile dal quale partire per ricostruire l'edificio del blog: "La prossima volta che prepari un uovo al tegamino, piazza una telecamera accanto ai fornelli e spiega ad alta voce tutto quello che fai: sarà il tuo primo tutorial".


Il tutorial: come avevo fatto a non pensarci prima?
Esistono tutorial per imparare a :

-dipingere le unghie "gradient"
-fare la spaccata
-allenarsi con la ginnastica facciale
-acconciare i capelli "a fiocco"
-pescare le trote al lago
-fischiare con le dita
-"essere fighe in foto"
-spalmarsi ombretti glitterati adatti alla "scuola media"
-coprire l'acne
-baciare uno sconosciuto per strada per 8 minuti
-ballare la tecktonik
-bere l'acqua (premio all'ironia)
-cucire una tenda con gli strofinacci
-preparare la borsa da dj per una serata
-disegnare occhi in stile manga
-avere addominali scolpiti in 8 minuti 
-diventare famosi su youtube, facebook e twitter.


E, a partire da oggi, c'è anche il PRIMO TUTORIAL PER DIVENTARE FILOSOFI. 


Step1. Ricerca di un luogo appartato, silenzioso, defilato dalle urla di babyP e dalla TV al massimo volume del papà. 
"Vivi nascosto", come dicevano gli Epicurei. O pensa di notte, quando tutti dormono.




2. Acquisto delle opere fondamentali della filosofia. 
Andrebbero anche lette, ma in certuni casi disperati è consentita la sola bella mostra nella libreria. 
È consigliato anche il trasporto dei tomi fuori di casa, per esempio a una serata mondana, per poter sfoggiare la propria presunta cultura.




Step 3. Sfoggio di una citazione profondissima, così da incantare il proprio uditorio. 
Meglio se criptica, così da affascinare senza essere compresi, e dunque senza possibilità di confutazione.



sabato 9 febbraio 2013

La filosofia del sabato sera ovvero la filosofia ostica. #3. A volte utopica.

Il concetto di utopia ha un'ambivalenza semantica: 
ou+topos=non luogo
eu+topos= buon luogo


Sta, quindi, tra l'irrealizzabilità e la meta a cui tendere, nonostante le disillusioni di questo mondo.


L'utopia è stata mezzo per vagheggiare società giuste (Platone, Campanella, More), poi ripresa in epoca contemporanea da tanti scrittori dis-topici (Orwell, Bradbury, Vonnegut, etc.).



Questa è semplicemente la mia filosofia del sabato sera, e non ho in progetto alcuna riforma societaria: sono sola e abbandonata, coi miei libri, col mio lassismo, svogliata più del mio peggior allievo.


Io stasera ho voglia di mettere le ali, come la biga platonica, e ascendere verso mondi irreali e utopici.

Dove sono truccata, e bene.

Dove sono magra, e mi stanno bene pure i leggins di (eco) pelle.


Dove sono taccata, come nel lontano '99.

Dove indosso gli orecchini che piacciono a me, pendenti e sberluccicanti.

Dove sono senza orario, e posso fare le 5 se mi va, ma pure le undici: l'importante è il principio dell'autarchia temporale.

Dove posso fare un aperitivo dalle 19 alle 22, nel cuore della movida (oddio, l'ho scritto), fingendo di conoscere tutti e appiccicandomi come una patella all'unico volto noto.

Dove sono con le mie amiche, che almeno sanno dove portarmi ché mi sono truccata, taccata, e ho già bevuto alquanto.

Dove ballo, come ballavo una volta, in una "discoteca-labirinto bianca senza luci colorate grande un centinaio di chilometri dalla quale non si possa uscire."







Dove mi domandano "Sono le 4: che facciamo, andiamo?", e io rispondo "NO", c'è ancora musica, gente, e l'alba distopica sul Po da contemplare.

Dove si mangia un panino con maionese, salsiccia e cipolle, o una pizza gigante del Manhattan, che per miracolo non rimane sullo stomaco, come nel lontano '92.


Dove giri lentamente la chiave nella serratura, poi ti lanci nel letto, truccata.


Dove dormi fino alle due del giorno dopo, ti sciacqui il viso senza rughe con l'acqua gelida, e sei di nuovo bella.

Buon sabato sera, a chi esce 
con le amiche 
con il fidanzato/marito (ma nulla di socialmente comandato: una bella serata divertente, due birrette, una cena buona, e dei baci, ancora lunghi come in gioventù-)
con se stesso.

Buon sabato sera, a chi sta a casa
perché non ce la fa più di uscire,
perché ha le amiche accorse causa dramma esistenziale,
perché ha un fidanzato da coccolare,
perché ha l'influenza,
perché la babysitter ha dato forfait,
perché deve finire un libro, iniziare a vedere un film, spennellare l'armadietto della cucina, imbastire il pranzo della domenica coi suoceri,

perché deve studiare, 
e ascoltare il respiro di sua figlia.


Ti prego, babyP, dormi, che sono solo all'analogia
dell'essere di San Tommaso.
E se vuoi che proprio ti persuada, lo ammetto:
l'unica utopia realizzata sei tu,
senza trucco,
senza tacchi,
senza leggins di pelle.




venerdì 8 febbraio 2013

La felicità è un'attività (secondo la ragione di babyP).

BabyP si lamenta del fatto che ultimamente non è più al centro del blog.
Dice che io divago, sul blog e nella vita quotidiana. 

Studio migliaia di nozioni inutili per il concorso docenti, rimugino sul fatto che Twitter sia elitario, cucino troppo spesso la pasta col sugo rosso, invece di leggere qualcosa di edificante faccio una partitella a Ruzzle prima di dormire, mi lamento che Kenwood si sia di nuovo rotto, e via dicendo.

Dice che mi sto di nuovo perdendo. 

Che proietto la ricerca della felicità a un dopo che per lei non arriva mai. 
Dopo il lavoro. Dopo che mamma e papà avranno parlato. Dopo il concorso. Dopo la nanna. 

Eppure la felicità non è uno stato di grazia
futuro
fugace
trascendente
o da inserire nella note dell'Iphone.

Aristotele dice che tutti tendiamo alla felicità: non esistono pessimisti, nichilisti, sfigati.
Insita nella natura umana è la TENDENZA alla felicità.
E la felicità è immanente: qua, in questa vita, alla portata di tutti, e realizzabile da tutti.
Non è un'idea da accarezzare: è un'attività da compiere, ogni giorno, avvalendosi della ragione. 




È tutto così semplice, secondo babyP: basta fare della felicità un impegno quotidiano.  
Al posto di false promesse sullo sport, sulla crema antirughe, sul corso di tedesco.

Bisogna essere concrete e tempestive per acchiappare la felicità.

BabyP suggerisce d'iniziare alle 6.30 del mattino, non c'è tempo da perdere.
Svegliarsi, con l'argento vivo addosso, urlando "lat-te lat-te!", e distribuire baci riparatori a chi stava dormendo.
Chiedere, e ottenere, un numero imprecisato di biscotti. Inseguire il papà mentre fa la doccia: appena lui è insaponato e quindi impossibilitato a uscire, iniziare a giocare con i detersivi, infila un pupazzo nella lavatrice, un giocattolo cade nel gabinetto. 

Fuggire da qualunque tentativo di costrizione (vestiti, calze, spazzole, spazzolini, creme). Correre a piedi nudi scivolando come una pattinatrice inesperta. 




Convincere la mamma a smettere di studiare da Cleopatra a Breznev. 
E uscire, a respirare quest'aria che sa di primavera. 
Fare cose semplici come la spesa, ma scegliendo personalmente e con grande attenzione i prodotti da comprare. Magari per fare una pizza al prosciutto. 





Salutare tutti i commercianti del quartiere, strappare un sorriso anche a quell'antipatica del negozio all'angolo.

Interrogarsi sugli sviluppi del marxismo osservando una banale panchina.




E ballare, di prima mattina, come promesso.






























mercoledì 6 febbraio 2013

"I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo".

Wittgenstein si propone di analizzare il linguaggio allo scopo d'individuare le condizioni che lo rendono dotato di significato. 
Il suo discorso è molto complesso perché parla di linguaggio logico-formale, l'unico in grado di rispecchiare la struttura logica dei fatti del mondo.

Poi apre una breccia in questo scenario di freddi logicismi:



Il mio linguaggio, se corretto, descrive la realtà, la raffigura, la dipinge.

Il linguaggio di babyP non è un insieme sconnesso di parole mal pronunciate, ma è dunque la fotografia della sua realtà.
Lei parla molto di cuori, fiori e stelle (da qualche giorno anche di sushi, birra, orecchini e zucchero, a dire il vero). E raffigura un mondo oggettivo, esistente, vivo.

Se parla di righe è perché le vede ovunque: 
sui vestiti, sulle presine, sui pigiami,
sui piatti. 
Tra le righe, babyP scorge il mondo. 


Se parla di fiori è perché sono sbocciati sotto ai portici,
come promessa di primavera.


Se parla di stelle si riferisce a se stessa.



Il suo linguaggio passerebbe qualunque verifica degli analisti in quanto scevro di entità fantastiche, metafisiche, illusorie.

Persino Wittgenstein, dopo la pubblicazione del Tractatus, si dedicò all'insegnamento ai bambini delle elementari e, attraverso le loro parole sgangherate, capì di non essere giunto a una teoria definitiva sul linguaggio. 
Mettendo tra parentesi la ricerca sul linguaggio logico, si rese conto di quanto fosse importante quello quotidiano in quanto permetteva la socialità, dall'amore alla politica, sino al semplice gioco tra bambini.


Il linguaggio degli adulti è, invece, tutto una stramberia. Non vogliono significare il mondo, forse perché ne hanno paura.
Vagheggiano di coscienza, armonia, libertà, destino, essenza, verità, affinità, speranza.

Cercano in una stanza buia un oggetto nero, e l'oggetto non esiste.

Per esempio: 
"Sento un amore essenziale per te, ma il destino ci è avverso. Quando la mia coscienza non sarà più scissa, godremo della libertà ritrovata."
Dal punto di vista di un linguaggio rigoroso e significante sarebbe più convincente:
"Mi piaci molto. Hai un bel sorriso, ridi spesso, e hai le caviglie sottili. Purtroppo sono sposato, ops, mi ero scordato di dirtelo? Ora sono un po' incasinato perché mia moglie ha scoperto che chattavamo all'una di notte. Se riesco a farle credere che parlavamo di  bioetica, possiamo rivederci".

Wittgenstein parlava di "perversione" delle espressioni metafisiche: non poteva immaginare che ci fosse qualcosa di ancora più aberrante.


Vale anche la versione negativa ("E' una brutta persona").
Tale espressione rasenta il nichilismo espressivo.
#sapevatelo



sabato 2 febbraio 2013

La filosofia del sabato sera ovvero la filosofia ostica. #2. Edith Stein e l'empatia.

L'empatia, forse, non è attitudine da filosofe.

Schopenhauer aveva parlato di compassione, nel senso etimologico del cum-patire (sentire assieme). Si tratta, però, di un atteggiamento volto a fuggire - temporaneamente - dal pessimismo cosmico che ci costituisce: sentiamo assieme agli altri le sfortune della vita, e ci sentiamo più sollevati. Il che può essere consolatorio sul momento, ma non fondativo di una vita etica.

Edith Stein si è dedicata all'analisi dell'empatia definendola come il cogliere un vissuto di qualcun altro in modo non originario, ossia non appartenente alla mia esperienza.
L'elemento fondamentale è che il vissuto non sia da me originato: se lo fosse, risulterebbe essere una semplice con-partecipazione. 


Per esempio, l'esultare degli ultras per un gol non è ascrivibile
all'empatia, bensì si tratta di con-partecipazione.

L'empatia serve per entrare in contatto col mondo che non è solo oggetto da teorizzare e plasmare secondo i propri scopi, ma è anche un soggetto da incontrare e vivere, lasciandolo essere quello che è. 
È la bellezza caotica della diversità depositata nei nostri vissuti. Un regalo che mi offre l'altro, prima che lo giudichi. 



L'empatia accoglie drammi ed euforie.
Ama il diverso.
Evidenzia l'irrepetibilità di ciascuno.
 

L'empatia non è solo partecipazione emotiva: è guardare all'altro e alla sua visione del mondo, autentica e fallace come la mia.
Significa rendersi conto che abbiamo bisogno degli altri, e desiderio di sciogliere i loro enigmi.

Spesso non sono empatica per nulla, nonostante voglia che il mondo fosse empatico con me. Soprattutto se trascorro il sabato sera a studiare il feudalesimo e l'apprendimento significativo per il concorso docenti, se ho l'influenza, se babyP ha trascorso la giornata con il padre e io mi sento esclusa, se indosso i leggins e il maglione sformato, se annuso aria di primavera e fuori piove, se il sushi mi è rimasto sullo stomaco, se nessuno mi chiede come sto.

Stasera sono empatica con me stessa e
con lei, che è stufa delle bugie,
e con lei, che ha voglia semplicemente di innamorarsi,
e con lei, che vorrebbe congedare tutti, con educazione, e mettersi in viaggio.

E con babyP che, mentre la portavo a letto, mi ha fissato, scorgendo un accenno d'inquietudine,  e mi ha tolto un incorporeo bruscolino dagli occhi.

BabyP, invece, non ha bruscolini negli occhi.
Ultimamente mangia il burrocacao e parla di leoni a righe
e volpi a pois, forse perché sente dentro di sé il mondo.