mercoledì 24 aprile 2013

Le lezioni americane di babyP.

"Papà lavorare e mamma ride", così babyP pennella il nostro quadretto familiare.


Così parla, da quando ha imparato a giustapporre nomi, interiezioni, verbi, congiunzioni, pronomi e aggettivi. 
Come un prestigiatore che tira fuori dal cilindro un coniglio impagliato o un mazzo di fiori di plastica, babyP sfila via dalla bocca le parole, e fa la sua magia: va all'essenza delle cose. 

Una sfilza di parole - fuori dal cilindro -
leggere, 
pulite, 
inequivocabili. 


Tentativi di comunicazione.
La verbosità pesante, a sinistra, e la leggerezza pensosa, a destra.


Come Calvino, sottrae il peso dagli eventi e li racconta per quello che sono: visi, parole, gesti, liberati dalla zavorra del rigore logico, della spiegazione forzata, delle menzogne che incantano.

Lei puntella i miei ricordi: io sarò sempre la mamma che ride, anche quando cozzerò contro le pareti e mi diluirò in lacrime.

Esercizi di parole leggere (dalle lezioni americane di babyP).

Estate.
Il sedile dell'auto bagnato dal pezzo di sotto del bikini.


Abbandono.
Lui si allontana, come se scivolasse sulle pattine. Non si volta indietro. Non dice una parola. Ha il viso come una pietra.

Elementari.
Una maestra, suor Luigia, di centodue anni, che mi spiegava per benino l'ortografia mentre si tagliava le unghie con delle enormi forbici da pescivendolo. I frammenti delle unghie schizzavano sui fogli con la doppia riga, una più sottile e una più larga, mentre mi esercitavo con le doppie. 



Paura.
Resisto al sonno, girandomi su un fianco, e poi su un altro, come un pezzo di carne ben rosolato, per la paura di sognare.

Ochetta.
Ochetta. Piccola. Regina dell'ipocrisia. Penultimo sogno. Strabica (non di occhi, ma di sguardo sulle cose). Gioia. Cane bastonato. 
Tante parole hanno cercato di amarmi, e cambiarmi.

Cielo.
Il cielo biancolatte della mia città. Il sole della Sicilia come mercurocromo che si spennella sulle sbucciature della vita.




Spesa.
I corridoi e gli scaffali del Carrefour visitati come una galleria di pop art: su per il primo corridoio di pane-pasta-riso, svolta, e giù per il secondo di detersivi, scope e spugnette, e così via.


Esperienza mistica.
Da bambina telefonavo spesso al Papa. Gli chiedevo se indossasse il pigiama per andare a dormire, se dicesse che voleva la pace del mondo così, per fare buona impressione  -come facevo io al momento della preghiera al mattino a scuola -, se si fosse mai innamorato di una donna - umana -, se bevesse anche lui latte e nesquik al mattino.


Nirvana.
Con le gambe a penzoloni sulle poltrone sospese del Circolo dei Lettori, con la Szymborska tra le mani e tra la testa. 


Sul sito del Circolo dei Lettori (http://www.circololettori.it/)
ho trovato Pennac a occupare la mia poltrona preferita.


Amore.
Stringo babyP, e mi sembra di abbracciare il mondo. Perché il mondo è nelle sue mani.

La sapienza umana.
Micromega e il suo compagno di viaggio si stupiscono che i terrestri, piccoli come vermiciattoli, abbiano un "orgoglio infinitamente grande". E decidono di regalare loro il grande libro della filosofia, in cui potranno trovare spiegazione a tutto ciò che accade. Quando gli umani lo aprono scoprono che non vi è scritto nulla. 
Il libro sul senso della vita è così: sempre aperto su una pagina bianca.








venerdì 19 aprile 2013

L'inquietudine degli altipiani.

Ci sono periodi della vita in cui tutto va bene, in cui tutti mi ripetono come sei fortunata, come sei brava, come ti godi la vita, tu.

Forse non sanno delle notti dagli occhi sbarrati. 
O delle mattine alla ricerca dei sogni perduti della notte. Di quei sogni che fanno tutti, e tutti dimenticano, ma io voglio sapere dove vanno a finire.

È che sono un'accozzaglia di pensieri



Pensieri disordinati, amputati, sterili.
Pensieri colorati, volatili, inconsistenti.

Wittgenstein scrisse che ci sono pensatori che sono come delle vette, e altri come altipiani
Io vivo sull'altopiano, e per lo più mi sembra una sistemazione confortevole, con le tendine alle finestre e i libri in ordine alfabetico alle pareti. 
A volte, quando il cielo è terso, scosto le tendine e vedo quelle vette scintillanti, altezzose, che ridacchiano maligne della mia bassezza. È una vertigine al contrario.

La mia inquietudine è l'andirivieni dall'altopiano alle vette. 

L'inquietudine.



Babyp non capisce tutta questa inquietudine. 
Lei è felice o infelice.
Va avanti e indietro, dalla spiaggia al mare, e dal mare alla spiaggia. Sta dentro i limiti. A volte trasporta un secchiello o una formina a forma di granchio. Va avanti e indietro, e poi si ferma, raccoglie un sasso, e me lo porta fiera. Gode dei suoi traguardi.





È che la mia inquietudine non è malattia creativa, non è attributo da filosofi, neppure tormento da artisti.
Non arriva dalla profondità dell'anima. 
Non libera capacità straordinarie, significati inattesi, verità impossibili.

La mia arriva dall'esterno: sono gli altri a volere da me lo straordinario - la pasta fatta a mano, il commento azzeccato, il vestito che non segna, la storia giusta, la scelta definitiva -. Giocano ad adulare quell'altra persona che vorrei essere, e forse non sono.

Ho voglia di non pensare, di non scrivere quell'ultima parola, di non finire i racconti di Carver.

Io me ne sto a fissare il mare, come un'ebete.
Per nulla ispirata, mi nullifico come essere pensante.





Sto lì, come l'asciugamano steso sulla sabbia.
Slegata da quella me che abita sull'altopiano e da quell'altra - chissà se esiste- che vuole scalare le montagne.

In attesa di fermarmi da qualche parte, e comprare delle tendine nuove.






mercoledì 10 aprile 2013

Deliri ed egoismi febbrili.

Anche io voglio scrivere di febbre.


La febbre dei bambini, che sfiora temperature iperboliche, è un valido argomento sull'ambiguità umana. 
La questione che solleva è: pessimismo od ottimismo antropologicoL'uomo è egoista o altruista per natura?

La febbre dei propri figli apparentemente sospende la natura egoistica con tutta quella abnegazione, cura dell'altro, privazione di sé (non mangio, non mi lavo, non dormo). 
Eppure, oltre quelle coperte rimboccate e quei baci sfiorati, l'essere umano riesce a produrre una serie spaventosa di pensieri egoistici e prepotenti.

Al terzo giorno di febbre di babyP, e alla novantaseiesima goccia di tachipirina, sono ridotta a essere una madre inadatta e spregevole.

(Le giornate sono come le notti, così lunghe e amplificate che non finiscono mai: diventano giorni senza bagliore).

Trascorro la giornata sul divano, con un esserino del peso di una cassa d'acqua addosso. Il corpo è anchilosato, la mente delirante, la natura umana dilaniata dall'ambiguità.
Le pareti sono color crema rancida, bisognerebbe ripitturare, c'è qualche crepa strutturale, i quadri sono tutti sbilenchi. Provo a scollare queste ore infinite dalle pareti come con una vecchia tappezzeria a fiori.



Le leggo di tutto: favole, ricettari, volantini delle offerte dei supermercati. Qualche classico: oggi ho provato con Fiesta, ma babyP è diventata insofferente alle parole. Perdiamo aggettivi e avverbi per strada, e il sole non sorge mai.

(Vorrei essere Lady Brett Ashley che ammalia senza essere bella, che ride senza essere felice, che beve senza essere sbronza. Vorrei sedermi in un bar fumoso, a Pamplona, con donne dalla bocca rossa e toreri dagli occhi neri, che si muovono veloci). 






Sento il suo respiro affannato, e il mio cuore inizia a battere all'impazzata come il suo.


(Vorrei calarmi dal balcone, annodando lenzuola e asciugamani e federe, e vagare per le strade della mia città così come sono, cenciosa).

BabyP mugola. Le accarezzo i capelli arruffati e sporchi. Il tempo è dilatato in un istante infinito: sono sempre le 15.13. È come quando a scuola c'erano due ore di seguito di matematica, che non passavano mai.

(Vorrei avere quindici anni, e andare in due in motorino, schivando il vigile coi baffi neri, e sentire l'odore della fine della scuola. Odore di libertà).



Le misuro la febbre, spesso, con l'espressione ottusa di quelli che giocano alla roulette e sperano che esca il numero su cui hanno puntato tutto. Ho il vizio, ormai; le misuro la temperatura ogni ventitré minuti confidando nel numero fortunato: il 37.


(Vorrei stendermi su un prato, con i fili d'erba che mi fanno il solletico, e le margherite infilate dietro le orecchie).


Accendo la TV e scopro che Maria de Filippi va ancora in onda, ma i tronisti sono tutti invecchiati, i muscoli sgonfiati, le canotte allungate, i capelli imbiancati. I tronisti hanno settant'anni ma continuano a parlare di sé in terza persona, come babyP. 

(Vorrei spogliarmi di quest'aria perbenino, dei capelli alla de Filippi, ed essere lievemente sopra le righe, come Alice Glass. Vorrei sbandare un po').






Vorrei smettere i panni della madre modello, e anche quelli della madre mediocre, e tornare a quando ero bambina, in agosto con 42 di febbre, e alle pezze bagnate che mia mamma mi metteva sulla fronte e sui polsi. Al giornalino che mi comprava. Al suo volto che compariva, stirato in un sorriso, appena io piagnucolavo.
Voleva scappare anche lei da quei giorni d'aria brodosa?
Forse sì, ma a me è rimasta appiccicata addosso solo la frescura di quelle pezze. Mi è rimasto appiccicato addosso l'amore.








venerdì 5 aprile 2013

Siamo nati "gemelli alla paura".

Hobbes raccontava di essere "nato gemello alla paura": la madre, infatti, partorì prematuramente a causa dell'attacco sulle coste inglesi dell'Invencible Armada nel 1588.

Tutti siamo nati gemelli alla paura: è un'esperienza originaria e costitutiva dell'essere umano che mette in atto una sorta di meccanismo di difesa per la propria sopravvivenza. 



Posso comprendere il mondo 
anche ridendo di gusto, 
o con gli occhi mesti, 
o sbiancando per la paura.

Il problema della paura è che sono poche le cose effettivamente da temere: spesso si tratta di proiezioni terrificanti su situazioni che di per sé non hanno nulla di pericoloso.

La paura è in noi, insomma.

BabyP, per esempio, ha paura dello scoppiettio di una Harley, delle foglie d'insalata, delle persone mascherate.

BabyP, però, ha superato la paura per le bolle di schiuma.
E mostra orgogliosa il suo dominio sulle passioni.


Io ho avuto paura di guidare in galleria.
Di tenere un neonato in braccia.
Di parlare in pubblico.

Si deve superare solo ciò che è d'impiccio al nostro itinerario esistenziale. 
Come? 

Ci sono la psicoanalisi, Anthony De Mello e i blog mammeschi, certo, ma si può anche semplicemente provare a fare proprio quello di cui si ha paura, in uno sforzo titanico.
Bisogna sfinire la paura.

E, invece, bisogna lasciar galleggiare quelle paure ai limiti della nostra strada, come pezzi di verdura in una zuppa che ribolle, incongruenze saporite in una vita troppo controllata.

Ho guidato in gallerie di 200 metri, di 500, di due chilometri (ma il traforo del Monte Bianco non lo attraverserò mai).
Ho tenuto babyP in braccio, per la prima volta, e ho sentito le braccia salde e al contempo morbide (ma i bambini altrui li lascio alle loro madri).
Ho detto "buonasera a tutti", mi sono sbrodolata dell'acqua addosso, ho mosso due passi verso l'uditorio e le parole sono uscite (ma ogni volta la voce vibra tremolante).




Pochi giorni fa citavo Calvino e l'invito alla leggerezza, e poi mi è mancata l'aria, non ho dormito, ho avuto brividi di freddo e vampate di caldo, sentivo la testa come isolata, i pensieri farneticanti.
Paura di non riuscire ad andare oltre
Di sbagliare. Di non essere impeccabile. Di non essere interessante.
Di non controllare gli eventi, anche quelli favorevoli.

E' una paura infida, che arriva di soppiatto proprio quando tutto fila liscio.
E quel pezzo viscido finito per sbaglio nella mia zuppa l'ho gettato via, fingendo la felicità degli sciocchi e il coraggio degli imprudenti.
















lunedì 1 aprile 2013

Il piacere immaginato.

Il vero piacere è quello immaginato.


L'immaginazione, secondo Bachelard, completa la razionalità della filosofia: l'uomo, durante l'affannosa ricerca di spiegazioni, ha anche bisogno di riposare. E sognare. 




Il piacere immaginato non è astratto, ma è leggero e intatto nella sua forma ideale, non ancora compiuto.
È un volo in caduta libera.





Quando arriverà sulla terra, quell'accelerazione euforica scomparirà: il piacere realizzato è la temporanea sospensione dei desideri, è quiete irreale, a cui seguiranno altri bisogni sempre più ampi e inarrivabili.

Affinché il piacere non evapori rapidamente, bisogna coccolare la sua attesa e dilazionare la sua realizzazione.

Un pomeriggio di vent'anni fa.
Casa di Francesca, l'amica del cuore: un nugolo di ragazzine esaltate per l'uscita del sabato sera.
I tacchi rubati alla madre di Francesca, l'eccitazione, le Marlboro rosse, le risa esagerate, la sfrontatezza, i vestiti infilati e sfilati, l'aria irrespirabile, la possibilità delle possibilità - tutte ammesse, tutte spalancate -, l'ottimismo, la bellezza di quegli occhi truccati ma incapaci di ingannare.



La resaca.
Gli occhi cisposi, la luce tagliente come un laser, la testa che rimbomba come una grancassa di un batterista heavy metal. 
Hai bevuto troppo ieri sera, e mischiato; hai bevuto i chupito a un euro come i ragazzini, e oggi hai una riunione a Milano, un andata e ritorno in treno, i bambini da recuperare dalla nonna, la cena da spadellare perché tua moglie si è iscritta a un corso di scrittura creativa in un orario seccante. Vuoi morire. Non ti sei ancora alzato - non ce la fai - e pensi a quando tornerai a dormire: sarà difficile, ma tornerai in quel letto, e potrai iniziare a rivivere.


Credits: Fioccodineve


Il giorno prima di una partenza per un viaggio.
La Lonely Planet sottolineata, il vestitino perfetto per quella cena sulla spiaggia, i siti di viaggi scandagliati, Google Earth con una foto dell'albergo di cinquant'anni prima, la macchina fotografica messa in carica, le domande unidirezionali ("Amore, ma mi porti a vedere gli elefanti marini a Punta Norte? E andiamo alla baia dei conigli? E vieni qua a vedere 'sta foto: è stupendo! E chissà com'è la stanza: si vedrà davvero il Taj Mahal?").

Il menu di un ristorante.
Il pollo tonchese croccante, la millefoglie di fichi e caprino al pistacchio di Bronte e miele ai fiori d'arancio, il babà in sospensione con gelatina al rum speziato. 
Assapori nomi e aggettivi, e pensi di poter provare tutto.





La notte quando si arriva al mare.
È tutto nero, il cielo e il mare. E potresti essere ovunque, perché è tutto indifferenza nera. Entri nel bilocale, butti i bagagli in un angolo, stendi le lenzuola pulite e vai subito a dormire pensando che l'indomani vedrai il cielo bianco del primo mattino e il blu smaltato del mare.

Un pomeriggio senza babyP.
Un pranzo in un bistrot con un'amica, una mostra, passeggiare senza direzione, un tè con un'altra amica, fissare stordita la massa che bighellona come te. 
Sei agile nei movimenti senza borse, passeggini, ammennicoli vari.
Pensi a quando varcherai la soglia di casa, e tornerai a fare la mamma, e le piccole braccia ti stringeranno come se fossi stata via tre settimane.





L'inatteso.
Arriva perché non hai avuto paura: anzi l'hai avuta, e l'hai combattuta. 
E l'inatteso, a sua volta, fa paura perché è un'irruzione caotica nella vita che scorreva placida.
Te lo tieni stretto. 
Perché ti hanno detto che sei brava: stai imparando la lezione di Calvino.