giovedì 10 settembre 2015

"Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose."

Vorrei con lei andare, sotto il cielo di città dalle nuvole fisse, andare nei nostri posti, quelli di una mamma e di una bambina, i giardinetti, l’asilo, il bar delle veneziane gonfie di crema. In questi luoghi fare quello che sappiamo fare, la mamma che dice no, poi abbraccia, e si dimentica, la bambina che dice sì, poi abbraccia, e si dimentica.





Vorrei con lei correre, sotto il cielo di mare dalle nuvole mobilissime, correre schizzando sabbia acqua e squame, come le sirene di un bestiario medievale, metà umane metà pesce; scivoliamo nel mare, prima con la testa poi con la coda. Cantare come le sirene, io ammalio lei, lei ammalia me.





Vorrei che lei andasse e corresse, sotto un cielo senza nuvole, le nostre mani che si slacciano; la sua vita che si allontana in luoghi che non conosco, una città troppo caotica, un fidanzato troppo saccente, un’università troppo straniera (Valeva la pena andare così lontano?, le chiedo. Sì, mi risponde sempre, La mia vita è lontana ma le mani sono vicine, posso quasi toccarti). 
Ci parliamo attraverso lo schermo del pc: non riesco a toccarlo quel volto dimagrito, da donna. Ci sono solo le domande a cui non risponde (Mangi, dormi, respiri?, le mie preoccupazioni legate alla vita vegetativa, le stesse di quando aveva due anni e applaudivo per una popò fatta nel vasino) e la risposta di una vita che sente e comprende e ama, quella che cercavo in quel volto sciupato: Mamma, sono felice.

mercoledì 2 settembre 2015

La nascita della felicità.

Bertrand Russell confessò di non essere nato felice. Fu un bambino, e un adolescente, infelice, tanto da pensare più volte al suicidio. Poi, crescendo, scoprì qual era il segreto per conquistare la felicità: distogliere l’attenzione da sé (sui miei peccati, le mie follie, le mie manchevolezze) e concentrarsi sul mondo esterno.

BabyP è nata felice.





È nata in una mattina di fine estate piena di luce, una luce dolce come il succo di una nespola stretta in un pugno.
Quella mattina di fine estate mi sono preparata con calma, lievemente distaccata dal mio corpo, la pancia leggera, senza paura. Mi sono spazzolata i capelli e li ho attorcigliati sulla sommità del capo simili a un nido, ho spalmato la crema idratante sul viso e sul corpo, e ho scelto una camicetta con le maniche a sbuffo.
Sono salita in macchina e lui guidava piano, come fosse l’inizio di un viaggio senza meta, dove si può deviare dall’autostrada per prendere un cappuccino e un panino alla mortadella in quel bar-alimentari con l’insegna che dondola sulla piazza del paese.

Attraversavamo un viale alberato, con alberi gentili e palazzi di inizio novecento con vetrate colorate e fiori dipinti verdi, rosa e azzurri e balconi in ferro. Un signore con delle sporte vuote ci ha fatto cenno di passare, abbiamo restituito la cortesia, e siamo stati per qualche minuto a gesticolare passa tu, no tu, finché lui si è deciso e ha attraversato la strada agitando le braccia con le borse appese per salutarci.

Osservavo un giorno nuovo, gli alberi, le case e le persone che lo abitavano, e più mi concentravo su quei particolari più mi estraniavo da me stessa. Chissà dove mi porta, questo giorno.
Poi mi è sembrato di sentire - per la prima volta - la voce di una bambina: In una mattina così, non può succedere nulla di brutto, e mi sono stretta la pancia come a dirle ho capito, allora andiamo dove dici tu.

Dopo poche ore è nata.
L’ho annusata. Non ho più sentito quegli umori strani di quando eravamo un unico corpo. Ho sentito odore di sangue e margherite e latte di mandorle. C'era il suo odore.
Ho sentito la mia voce che ripeteva come una litania il suo nome - babyP babyP babyP - , ho sfiorato un dito piccolo come un cetriolino sott’aceto. Ho visto un essere pieno di meraviglia. Era mia figlia, era lei; un nome, un corpo con le estremità bluacee, un pensiero tutto concentrato sui particolari della sua vita: un cordone tagliato e un sorriso stralunato di donna.