martedì 25 giugno 2013

Le mamme del mare di giugno.

La filosofia può risultare antipatica, a volte. Soprattutto quando si mette in testa di demolire certezze credute, abitudine reiterate e scorciatoie per il successo, ovvero i luoghi comuni.

Questa, per esempio, è la vera storia delle mamme del mare di giugno.

Arrivano dopo il dieci di giugno con le berline color prugna dei mariti. Stringono il volante con entrambe le mani e sfrecciano oltre i limiti di velocità, per allontanare la città, l'ufficio, il pallore dei loro volti. 

Arrivano tutte insieme, le mamme del mare di giugno, e, una volta scaricate le auto, e i figli, si affacciano -coraggiose- al loro destino.

Il mare di giugno è liscio come l'olio, con una miriade di meduse che galleggiano in superficie, simili a piccole orecchie trasparenti.
Il cielo è grigio: grigio topo, grigio piombo, grigio polvere.



Le mamme del mare di giugno parlano tra loro, senza perdere di vista i bambini. Parlano di quando non avevano tutta quella pelle che pendeva dalla pancia, e di quando il sole macchiava la loro pelle di lentiggini.
Hanno memoria di ogni anno che passa, di ogni ruga e di ogni chilo in più delle altre mamme di giugno.

Le mamme del mare di giugno non occhieggiano più il bagnino, ma l'Iphone.

Le mamme del mare di giugno dicono sì, sì al gelato al fior di latte, sì alla pistola ad acqua, sì al tuffo carpiato dalla boa in mezzo al mare, e poi compensano con altrettanti no, no al secchiello di Hello Kitty, no alla pesca di ricci, no alla gita in pattino. Pronunciano quei sì e quei no come gli oracoli della Pizia, in uno schema alogico sempre uguale: dopo tre sì, almeno tre no, e così via.



Le mamme del mare di giugno vanno alla ricerca dell'esotico, la sera, fasciandosi con leggins di palme, liane e tucani. Spingono passeggini o stringono piccole mani, e vagano per il lungomare tra spettacoli di burattini e venditori di mandorle caramellate.
Con l'imbrunire la nostalgia del passato, o del futuro, si fa più forte, e allora si siedono ai tavolini di plastica di un bar, e immaginano di essere in un chiringuito a Formentera, proprio là dove persero l'innocenza avviticchiandosi a sconosciuti coi foulard colorati attorno al collo e un lieve odore di divanetto da discoteca.

Le mamme del mare di giugno hanno una pila di libri sul tavolino accanto, e Viver sani e belli tra le mani.

Le mamme del mare di giugno, quando non escono, mettono a dormire presto i bambini, per ritagliarsi uno spazio tutto per sé, sul balconcino incastonato tra i palazzoni degli anni sessanta. Si perdono a guardare la luna abnorme comparsa in cielo: trasognate, si domandano perché non ci sia campo.




Un anno, il 2011, - lo ricorda ancora il bagnino, una mamma di giugno e il macellaio - una delle mamme non si presentò all'appello.
Secondo il bagnino, un evento traumatico l'aveva fatta diventare una mamma della montagna di giugno.
Secondo una mamma di giugno, quella col trikini e l'abbronzatura a spicchi, era colpa del marito che si era ingelosito - a torto - perché lei si arrampicava spesso sul trespolo del bagnino per verificare se lassù il cellulare prendesse.
Secondo il macellaio, quello che fa gli hamburger a formo di topolino apposta per le mamme di giugno, era colpa dello iodio, che l'aveva portata alla follia.


Di lei rimase solo un autoscatto nella cabina 43, con i laccetti del bikini legati sulla schiena e gli occhi come brodo bollente, che il proprietario dei bagni Serenella attaccò con una puntina da disegno nella bacheca, tra i prezzi degli ombrelloni e gli avvisi ai bagnanti.



lunedì 10 giugno 2013

La difficile solitudine di Montaigne.

La solitudine è un romantico tête-à-tête con se stessi.

Montaigne elogiava la solitudine in quanto condizione irripetibile per sprofondare in sé, e scollarsi di dosso gli affanni altrui come si fa con una vecchia carta da parati ingiallita.
È naturale, continuava il filosofo, avere una famiglia, un lavoro e dei beni ma non bisogna attaccarsi a essi: una moglie graziosa, una cattedra all'università e una casa da rivista non danno la felicità.

Quella la si ritrova solo in un “retrobottega tutto nostro” con una lampadina che penzola dal filo e scaffali pieni di libri non letti, scatoline di viti e bulloni, due bottiglie di birra, e la compagnia più piacevole: se stessi.



La solitudine è una sospensione da messaggi che non arrivano, da carezze che non ci toccano, da concessioni che non vogliamo fare.

Montaigne suggerisce di affrettare il trasloco da una vita spesa per gli altri a una ritirata in sè. Bisogna "sposare solo se stessi", estremizza il filosofo.

Io mi immagino Montaigne, con il farsetto e la calzamaglia, nella torre d'angolo del suo castello a scrivere i Saggi
Cammina in tondo, prende un libro di Plutarco, lo sfoglia e poi lo lascia aperto sulla scrivania. 
Annota qualche frase intelligente di Plutarco, o di Seneca, perché non ha una gran memoria e tutto sembra colargli fuori dalla mente.
Fantastica sull'odore di pollo arrosto che proviene dalla cucina e sulle braccia grassottelle della contadina che intravede dalla finestra con un cesto di uova tiepide.
Poi, sul più bello, quando gli pare di aver trovato le mot juste, irrompono nel suo retrobottega i figli, tutti e sei.


Il primo ronza come un moscone.
Il secondo vuole giocare coi tarocchi di Mantegna.
Il terzo oscilla le gambe, e le braccia, invitandolo a ballare la branle.




Il quarto bercia una canzone da menestrello.
Il quinto accompagna il quarto con la spinetta.
Il sesto chiede perché. Perché non può mangiare i frutti rossi e rotondi delle piante ornamentali che arrivano dall'America. Perché ha ragione quel Copernico se poi tutti i grandi scienziati restano sul vago quando è il momento di ammettere che è la terra a girare intorno al sole. Perché i cattolici ce l'hanno tanto con gli ugonotti se alla fine dio è sempre lo stesso.





La solitudine, è proprio vero, non è di colui che non riesce a starsene solo nella sua sua stanza.














martedì 4 giugno 2013

Il sublime salverà il mondo.

In una certa fase della vita non è più la bellezza a salvare il mondo, bensì il sublime.

È la corruzione. Di quella misura, di quell'armonia, di quel limite che il bello impone.

Un bambino può ancora giocare con la bellezza, e con la verità legata ad essa. 
Un bambino è bellezza visibile.  
E non è per l'odore di cagnolino bagnato, le parole immediate, le dita morbide come gnocchi che ti accarezzano la faccia.
È perché è un puntino ben incastonato nel cosmo




È solo un bambino, e non deve far altro che ridere con quattro denti in bocca, pestare i piedi, e giocare. 
Costruirsi, insomma. Non modificarsi.

Tu che sei un essere adulto, invece, un posto nel mondo non ce l'hai più
Hai costruito per tanti anni, ma poi hai smesso di farlo perché è arrivato il momento di correggere, limare, cancellare. 




Te lo sei detto da solo, e gli altri hanno confermato: non va bene quello che sei diventato.
Troppo magra, dice tua madre.
Troppo egoista, dice tuo marito.
Troppo cervellotica, dice la tua amica.

E ora ti ritrovi a riempire quei buchi di assenza che hai scavato, come in un pezzo di groviera. 

Ti resta il sublime, lo smisuratamente grande e potente.
Ti resta tutto ciò che urta, stride, e fa violenza. 
È la tua ultima speranza: deviare, e minacciare il tuo sistema di autoconservazione fatto di serate davanti alla tivù con la copertina di cachemire, di parole ingoiate, di surgelati cotti in padella.



Come quando tutti quelli che conoscevi ti dicevano "come ti sei sistemata bene". Dal momento che eri intelligente, avevi trovato un lavoro con la tredicesima e la quattordicesima; dal momento che eri graziosa avevi trovato un marito dai modi gentili che ti baciava sulla guancia; dal momento che eri fortunata avevi messo al mondo due bambini così educati che non parlavano mai a sproposito e non si macchiavano col gelato.

Non eri sistemata per nulla: il cervello era finito tra le scapole, e il cuore nella rotula destra. 

Così avevi iniziato a passare le ore su Internet a leggere tutto quello che i liberi pensatori, i viandanti, i poeti e i rivoluzionari offrivano per tenere lontana la morte, e le altre sciagure umane. 
Un giorno uno di quei liberi pensatori iniziò a scriverti delle parole così squallide così patetiche così cacofoniche che provasti paura. Perché lui si era incapricciato di quel cervello tra le scapole e di quel cuore nella rotula destra, di quella voragine di cui ti vergognavi, e che nascondevi. 

Fu una storia sublime e sciagurata, tra due che non s'incontrarono mai, ma che ti rimase incollata addosso così com'era: senza luce, senza forma e senza sicurezza.