giovedì 23 maggio 2013

"Da quando ho imparato a camminare mi piace correre."

"Da quando ho imparato a camminare mi piace correre", scriveva Nietzsche.

L'essere umano non s'accontenta delle piccole conquiste, tira capocciate contro i propri limiti, mette a soqquadro l'equilibrio raggiunto come fa un bambino coi suoi giocattoli.



Da quando hai imparato a amare, ti piace l'idea di avere un fidanzato. 
E da quando hai trovato un fidanzato con un lavoro nell'immobiliare, nessuna dipendenza dichiarata e una casa vicino a Portofino, hai iniziato a notare cosa non funzionasse in lui (ha il tartaro, legge solo Dan Brown, sminuzza gli spaghetti con forchetta e coltello, ha un paio di scarpe Hogan, beve troppi negroni all'aperitivo e poi a cena è sbronzo e non comunica).

E da quando gli hai confessato cosa non funzionava, ti sei sentita fiduciosa nel cambiamento. E da quando ti sei sentita così ottimista, hai pensato che mancava ancora qualcosa in quella rivoluzione d'amore: un anello. E da quando hai scoperto che il valore dei diamanti è determinato dalle "quattro c", hai scelto quello che ti piace, il Koh-i-Noor. 

E da quando hai scelto l'anello adatto, non hai potuto fare a meno di pensare anche all'abito da sposa, magari corto -per stupire-, la chiesetta a seicento chilometri da casa, l'appartamento da comprare con la camera per i bambini, e il nome per i figli, ovviamente, che ti piacerebbe iniziasse con la "P".

E quando gli hai sussurrato "anello, matrimonio, casa, figli", come fosse una dichiarazione d'amore, lui ti ha guardato in fondo agli occhi, e ti ha detto: "Ho una sorpresa per te".
Ma non hai mai saputo di che cosa si trattasse.



BabyP si domanda se sia più puro il Koh-i-Noor
o il diamante azzurro Hope.


Da quando hai imparato a scrivere, ti piace l'idea che tutti leggano le righe bellissime e profondissime che scrivi. 
E da quando hai aperto un blog che parla di te ma in realtà non sei tu, sei molto meglio, un po' rock, un po' glamour, un po' hipster con la maglietta a righe e la montatura nera degli occhiali, ti piace che le tue amiche e tua madre ti facciano tanti bei complimenti. 
Così hai iniziato a scrivere anche racconti, sonetti e pamphlet, e li hai inviati alle riviste letterarie, ai concorsi per gli esordienti, e pure alle case editrici, ma solo quelle che t'immagini fatte di persone con la maglietta a righe e gli occhiali con la montatura nera. E da quando hai mandato tutto, e nessuno ti ha risposto, ti sei comprata la maglietta a righe, gli occhiali e pure una Moleskine con la pelle liscia liscia. 

E da quando giri così, una rivista indipendente e molto alternativa ti ha notato, e ti ha scritto che non si fa così, non si mandano dei racconti copiati da Carver, Wolff e Ford con qualche errore d'ortografia e dei titoli cretini. 



Beccata!

Da quando hai imparato a essere una mamma, ti piace mostrare di essere una mamma speciale
E da quando ti piace dimostrare di essere una mamma diversa da tutte le altre, ti sei letta tutti i manuali sulle mamme, tutti i blog sulle mamme e tutte le riviste sulle mamme, e ti sei iscritta a tutti i corsi per le mamme, quello per rassodare i glutei col passeggino e  quell'altro per far passare la nostalgia dei vent'anni. 
E da quando hai letto qua e là pillole di saggezza varie, hai capito che dovevi innanzitutto essere in forma, e correre per chilometri all'alba, truccarti le palpebre come cozze luccicanti e scattarti foto in ascensore per non perdere il tuo essere donna.


Così hai fatto tutte queste cose, e l'hai fatto sapere alle altre mamme che tu eri speciale, che alle due di notte facevi un tutorial per fare le decorazioni per i cupcake a forma di matrioska, che eri un modello per tutte quelle che facevano solo le mamme normali, insomma.

Poi un giorno una bimbetta, avrà avuto tre anni, col viso simpatico e gli occhi allungati come i tuoi, ti ha chiesto se avevi lavato il grembiulino per l'asilo, e sei stata assalita dai dubbi: chi era quella bimbetta?





Una mamma "speciale".


martedì 14 maggio 2013

Lo strano disegno di Wittgenstein e di babyP.

Wittgenstein definiva il filosofo come un tizio che fa uno strano disegno, poi lo prende, ce lo mette davanti agli occhi e chiede "Che cos'è?".

A babyP piace molto disegnare. 
Ha pastelli, pennarelli lavabili, matite e anche qualche vecchia bic. 
Ha tanti fogli, alcuni grandi, altri piccoli come francobolli. 
Si siede e inizia a tracciare segni colorati, concentrata come uno che risolve le equazioni di quinto grado.



Oppure si spalma per terra, come uno scendiletto, e fa avanti e indietro con le matite, in maniera quasi rabbiosa.





A questo punto m'intrometto, con la convinzione che un gioco non può essere solo un gioco, e le disegno una tartaruga, un grattacielo, una brioche con l'uvetta e le chiedo "cos'è?". 
Vado sul difficile, e le disegno un arabo che vende spezie nel souk di Marrakech e le chiedo "cos'è?". E lei non si scoraggia, mi risponde "giallo, rosso, marrone".

Poi capita quello che già Wittgenstein raccontava.
BabyP fa un disegno complicatissimo, più complicato dell'arabo con la cannella, la curcuma e il cumino. E, senza sollevare gli occhi dal foglio, mi chiede "Cos'è?".





E io non so cosa rispondere perché quello scarabocchio bellissimo non corrisponde a nessun oggetto del mondo che mi sono costruita. 
Ci provo, comunque: "È il Leviatano con il corpo fatto dai sudditi, piccoli piccoli, e la spada, la corona e il pastorale? È  la lavastoviglie quando papà l'ha smontata, e si è preso pure la scossa, col tubo carica acqua, il pressostato e l'elettrovalvola? È  ...?".
BabyP ride, e scuote i riccioli.

Non trovo il mio ordine, le mie regole, la mia realtà. 
Ma non c'è inganno.

C'è solo lei. 
E io che sbatto contro quel vetro sottilissimo che divide il suo mondo dal mio. 

Il suo mondo è ancora quello di chi crede che le stelle brillino per davvero, quando le guardi, e non che siano spente ormai da anni.


martedì 7 maggio 2013

Le pillole di felicità (sui tweet e i filtri di Instagram).

Aristotele, Etica Nicomachea.

La felicità, come la intendeva Aristotele, consiste in un impegno dell'anima secondo la sua parte migliore, ovvero quella razionale, e necessita di costanza e durata.
Essere felici significa dimostrare di vivere come esseri umani, ogni santo giorno.

L'essere umano contemporaneo sembra orientato, invece, a una mediocre contentezza.

Fenomeno diffuso è quello dei cercatori di pillole di felicità: lungi dal fare della felicità un'attività esistenziale, si accontentano di un "sol giorno."
Cercano le loro pillole in maniera disperata, come se fossero in crisi di astinenza, poi le buttano giù, senz'acqua, e aspettano l'effetto placebo.

La pillola di felicità condensa il progetto aristotelico in un tweet di 140 caratteri. 


La felicità è un panino con la mortadella, quella coi pistacchi, il sorriso del verduriere e la candela smozzicata alla cannella.
Tipico tweet da cercatore di pillole di felicità.


Oppure la cristallizza in un'immagine.
Il mondo è diventato come un album di foto dell'Iphone da scorrere rapidamente col dito, verso destra e verso sinistra:

Un soffione che sta per dissolversi in fatine volanti, come mi avevano detto quand'ero bambina. 


Un tramonto di lustrini rossi e viola e gialli.

Un cinema all'aperto, che non è più un cinema, ma c'è ancora dipinto a mano "Cinema Ariston", e dentro non ci sono più le seggioline pieghevoli, le famiglie sui balconi delle case vicine che guardano i film senza pagare il biglietto, e i papà che fumano pacchetti di Muratti fissando la tela bianca.






Scorro col dito, e trovo queste immagini, passate e presenti, ma io non ci sono mai: assente ingiustificata. 
Sono stata troppo tempo a cercare l'inquadratura e a condensare le parole.
Sono stata presa da me stessa, dai miei pensieri staccati. Il mio pensiero, a volte, è un gran disturbatore di felicità





BabyP è tutta concentrata sul mondo esterno, e si preoccupa poco di se stessa.
Il mondo banale e meraviglioso la affascina.
Lo tocca, lo annusa, e poi lo tiene presso di sé, come fa col suo coniglietto di pezza, senza frantumarlo in mille pensieri, senza sfumarlo con Earlybird.

Il mondo le sembra quello che è: 
un tramonto è così grande che sta tra le mani,
un soffione è così piccolo che sta tra le mani.















giovedì 2 maggio 2013

L'ermeneutica degli incontri.

Invento mille verità, per babyP.


Quella sui numeri pari, sui calzini spaiati, sui colori alternati del semaforo. 
Quella sulle polpette di lenticchie, sul grazie e sul prego, sulla tivù sempre spenta. 


Invento mille verità perché vorrei che babyP capisse tutto quello che bisogna capire, 
il desiderio di essere e di sapere,
quello che io cerco di capire ogni giorno. 

Io non ho incontrato santoni, guru, sciamani, chiromanti, alchimisti, veggenti.
Ho solo dato una manciata d'esami di filosofia. E ho afferrato qualcosa qua e là.
Per esempio, che non è possibile un giorno voler capire, e l'altro no, come se si trattasse di un accessorio della vita.




Vivere è comprendere, 
interpretare
incrociare le voci e gli sguardi degli altri, con tutto il nostro bagaglio di pregiudizi, di ossessioni, di fallimenti. 

Ho incontrato, fresca di laurea, il valvassino del valvassore del vassallo di un feudatario di un importante premio letterario. 
Il valvassino aveva un viso largo e piatto, quasi bidimensionale, senza naso né ciglia né labbra. 
Mi fece accomodare in bilico sulla sedia, appallottolò il mio curriculum vitae, non mi chiese dei miei studi, delle mie capacità, dei miei sogni. 
Dalla bocca senza labbra del valvassino uscirono parole, anch'esse senza profondità: "Stage. Non retribuito. Grande prestigio. Senza orario. Ragazzetta di buona famiglia. Trottare. 110 in facoltà del tubo. Darsi da fare, non pensare. Ma che contratto, che stipendio: si tratta di prestigio. Fotocopie, fronte e retro. Muovere il sedere. Portare il caffè. Magari al valvassore."
Io ripensai a quando avevo vinto il torneo di biliardino organizzato in spiaggia. 
Avevo sei anni, e giocavo in piedi su una sedia, non rullavo e non facevo autogol; seguivo le regole del gioco, insomma, nonostante fossi una mocciosa. Ed era di grande prestigio vincere lì, al torneo dei bagni Santa Teresa: segnai il gol decisivo, i bambini più grandi iniziarono a rispettarmi e vinsi una coppa del nonno. 
Ero fatta della stessa sostanza dei miei sogni.




Ho incontrato una collega con delle occhiaie profondissime, come la Magnani, per la quale insegnare non era solo trasmettere nozioni e date ma mostrare: l'agorà coi banchetti del pesce e le statue degli dei, la voce di Ungaretti che recita il suo smarrimento, la puzza delle trincee.
Lei sistemava sulla cattedra una pila di libri e altri oggetti, e gli studenti passavano l'ora con la testa sghemba per vedere che cosa si portasse dietro la professoressa. Poi, alla fine dell'ora, smantellava la torretta, e non erano libri di scuola, ma racconti di Wallace, una canotta a righe di H&M ancora col cartellino del prezzo, liste della spesa, i romanzi corali dei Wu Ming, una bolletta del gas, un cd dei Baustelle, bigliettini di appunti, foto di lei in spiaggia con suo figlio che faceva le smorfie, alcuni film di Hitchcock e un cinepanettone, un sacchetto unto di focaccia.
La professoressa era un essere umano, tutto qua, fu la straordinaria rivelazione per i suoi studenti.





Ho incontrato un uomo che non era pronto, che stava sempre due passi dietro di me. 
Non era pronto, per esempio, a guardare insieme a me appartamenti di cinquanta metri quadri da affittare, coi copriletti di pizzo di Cantù e i lucernari aperti sulle stelle.
Io non tolleravo questo starmi dietro, proprio io che cercavo di anticipare sempre le mosse della vita, per difendermi.
Poi è successo che non sono stata pronta io, che ho fatto dieci balzi all'indietro, e lui mi ha aspettato.
E ora nella vita gioco, insieme a lui, a regina, reginella quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello: tre passi da elefante, uno da gambero, sei da formica.






Ecco cos'è la vita: un ronzio di voci - limpide, ruffiane, schiette, bugiarde - in cui fondersi e confondersi per tracciare il proprio orizzonte di verità, là dove il cielo sembra toccare il mare.