Vorrei
con lei andare, sotto il cielo di città dalle nuvole fisse, andare
nei nostri posti, quelli di una mamma e di una bambina, i
giardinetti, l’asilo, il bar delle veneziane gonfie di crema. In
questi luoghi fare quello che sappiamo fare, la mamma che dice no, poi
abbraccia, e si dimentica, la bambina che dice sì, poi abbraccia, e
si dimentica.
Vorrei
con lei correre, sotto il cielo di mare dalle nuvole mobilissime,
correre schizzando sabbia acqua e squame, come le sirene di un
bestiario medievale, metà umane metà pesce; scivoliamo nel mare,
prima con la testa poi con la coda. Cantare come le sirene, io
ammalio lei, lei ammalia me.
Vorrei
che lei andasse e corresse, sotto un cielo senza nuvole, le nostre
mani che si slacciano; la sua vita che si allontana in luoghi che non
conosco, una città troppo caotica, un fidanzato troppo saccente,
un’università troppo straniera (Valeva la pena andare così
lontano?, le chiedo. Sì, mi risponde sempre, La mia vita è lontana
ma le mani sono vicine, posso quasi toccarti).
Ci parliamo attraverso lo schermo del pc: non riesco a toccarlo quel volto dimagrito, da donna. Ci sono solo le domande a cui non
risponde (Mangi, dormi, respiri?, le mie preoccupazioni legate alla
vita vegetativa, le stesse di quando aveva due anni e applaudivo per
una popò fatta nel vasino) e la risposta di una vita che sente e
comprende e ama, quella che cercavo in quel volto sciupato: Mamma, sono felice.
La vedo, questa scena. Vedo te e vedo lei e vedo me e vedo lui. I riccioli meno biondi, gli occhi dove mi perdo. Riesco a sentirne l'odore anche oltre il monitor, non più di bimbo, ma di ragazzo non più solo mio. Felice, Dio, fa che sia felice, quando io non potrò più guardargli le spalle. Che la vita gli sia lieve, come i perdoni, come le carezze.
RispondiEliminaRaffaella
Grazie, Raffaella.
EliminaGrazie per queste parole. Grazie davvero
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