venerdì 16 novembre 2012

Cogito, ergo sum?

Cartesio è passato alla storia come fondatore della filosofia moderna, ma era un tipo solitario, timido, pauroso. E pure cagionevole di salute tanto che, dopo essere stato prelevato da una nave da guerra della regina Cristina di Svezia, morì di polmonite a Stoccolma a causa delle levatacce imposte dalla regina per impartirle lezioni filosofiche (veniva svegliato alle 5: devo iniziare a preoccuparmi?).





Non avrebbe mai immaginato, insomma, di scrivere lo slogan filosofico più noto (eccetto che ai miei studenti): "cogito, ergo sum". 


"BabyP, dov'è la res cogitans?"

La vera rivoluzione stava nel fondamento del suo slogan: il dubbio. 
Bisogna dubitare di tutto: guardo il mondo, e mi appare fasullo. Non trovo un senso alla vita. Tutto è chimera.
Dubito, dubito, mummble, mummble, e arrivo però a un principio indubitabile, sul quale rifondo la mia visione. 
Il dubbio di Cartesio è metodologico. A forza di essere sommerso dai dubbi, mi rendo conto dell'unica certezza in mio possesso: sono un essere dubitante, ovvero pensante. 
Io sono pensiero, libero e consapevole, e questa è la sostanza che mi distingue dal resto del creato. Io penso, e agisco nel mondo in quanto dotato di pensiero.

Che sollievo fondare una filosofia sul dubbio.

Diventare mamma mi ha reso molto dubbiosa, ergo molto pensante, a discapito delle apparenze.




Dubito di dover continuare a bollire ogni mattina verdure biologiche, sane e insipide.

Dubito che quella faccia riflessa sul vetro del forno sia la mia: è raggrinzita e rassicurante come una torta di mele.

Dubito di far crescere babyP in una città che sa di pelle di sedili di treno e kebab e vermouth. Un giorno abiteremo su quell'isola che sa di zolfo e capperi e malvasia, e, forse, ci annoieremo a morte.

Dubito di essere l'unica mamma al mondo che lavora, passa il mocio vileda intorno, e non sotto, ai mobili, cucina bistecchine coi bordi raggrinziti, e sorride come la protagonista di una soap opera.

Dubito di avere doti creative: compro veline colorate, animaletti di feltro, colle atossiche che rimangono appiccicate al sacchetto, insieme allo scontrino.

Dubito di riprovare l'ebbrezza di quei baci, quelli bagnati e molli dei quindici anni, e quelli da uccellino che mi dà col suo becco babyP.

Dubito di smettere di immaginare, senza rimpianto, un'altra vita.

Dubito di aver vissuto serate con le amiche, che se mi andava di uscire a mezzanotte, mi truccavo, infilavo il cappotto, e uscivo.

Dubito di riuscire a programmare tutto, a che ora potrò finire il libro che ho sul comodino, che umore avrà babyP al risveglio, cosa inventerò domani al lavoro per poter uscire un'ora prima.

Dubito di rientrare in quei pantaloni di pelle nera, da biscia, taglia 40.


Dubito che siano le quattro del pomeriggio perché mi sembrano le 11 di sera.

Dubito, e dunque penso. È già qualcosa. 
Penso, e dunque sono: una madre.
Riparto da qui.






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