sabato 26 ottobre 2013

Il mito di Er e la scelta di una madre.

Platone, attraverso il mito di Er, guerriero caduto in battaglia e poi miracolosamente tornato in vita, raccontò ciò che accade nell'aldilà.
Le anime, dopo aver scontato pene terribili o goduto di premi celesti, giungevano al cospetto di Ananke, la necessità ineluttabile, e delle sue tre figlie. 
In bella mostra vi erano tutti i modelli possibili di esistenza - il tiranno, la starletta, il filosofo - e le anime venivano invitate a scegliere la loro sorte. 



La responsabilità del proprio destino era nelle mani dell'uomo che tendeva a scegliere in base ai ricordi della vita precedente (Odisseo, per esempio, stanco dei tormenti, scelse la vita di un uomo privato e sfaccendato).

Era uno spettacolo compassionevole e ridicolo e, ad un tempo, meraviglioso.

Si narra di una madre che scelse in tutta fretta, senza rifletterci, schiacciata com'era dal peso della responsabilità. E questo le capitò in sorte.

La donna si sveglia a un'ora qualunque della mattina, con gli occhi gonfi da rana e l'alito bolscevico. Strascica i piedi fino in bagno e fa per prendere lo spazzolino, poi qualcuno le sussurra ti aiuto io, cucciolina, e una piccola mano le strofina le setole sui denti. 
La donna ha la testa che pulsa, vorrebbe riavvolgersi nelle lenzuola, ma la bambina non le dà tregua, è tardi, bisogna vestirsi, su, e le infila degli orrendi leggings a pois e una maglietta a righe, poi le annoda i capelli in due codini asimmetrici.

La donna inizia a piagnucolare, non voglio andare a lavorare, c'è un mostro brutto e nero e puzzolente in quell'ufficio. La bambina la prende fra le braccia, e le dice non piangere, tesorino, non ti porto in quell'ufficio brutto e nero e puzzolente. 
Escono, per mano, e s'incamminano verso i giardinetti. La donna si stravacca su una panchina a scrivere status deliranti su Facebook; si accende una sigaretta con fare provocatorio e fa uscire dalla bocca anelli di fumo. Fissa con ostilità adolescenziale altre donne che camminano spingendo passeggini. 
La bambina rimane al suo fianco, con lo sguardo preoccupato.
- Non hai voglia di giocare un po'?
- Devi fare pipì?
- Vuoi la merendina?
La donna non risponde; si è messa a scrivere email velenose a tutti coloro che per anni l'hanno inchiodata alla responsabilità: il suo datore di lavoro, la sorella che è andata a vivere in Germania, suo marito, il professore di filosofia morale, l'ex fidanzato che le aveva lasciato il cane come pegno d'amore.



Tornano a casa, e alla donna sembra di essere felice, saltella e guarda in su: il cielo è vuoto.

Il pranzo è pronto: la bambina le ha preparato proprio quello che desiderava, gnocchi al pomodoro. Mangia con voracità, e chiede ancora, ancora, e la bambina sorride.

La bambina chiude le imposte nella camera da letto e dice è ora di dormire; la donna sprofonda in quel teatro buio, senza dialoghi, senza personaggi, senza azioni. Si risveglia gridando, non capisce dov'è cosa fa chi è, e la bambina accorre subito; dice non c'è nulla di cui preoccuparsi, ci sono io, passa tutto. Quelle parole sono come gocce di Xanax.

Suonano alla porta, ed entrano le amiche della donna: è la bambina ad averle invitate affinché la donna stia con quelle della sua età e se la spassi un po'. Ogni tanto la bambina fa capolino per controllare se hanno bisogno di qualcosa, e trova una donna distesa sul divano, due sul tappeto e un'altra acciambellata sulla sedia. C'è una bottiglia di vodka aperta e briciole di patatine sul tappeto; le donne ridono, eccitate, e leggono ad alta voce conversazioni su WhatsApp. Una si sta pennellando le unghie d'azzurro, gli occhi le luccicano di vodka, poi d'improvviso la malinconia.

Le amiche se ne vanno, e la bambina raccoglie la vodka e i bicchieri e le briciole. Chiede alla donna vi siete divertite? E quella risponde è arrivata la malinconia. La bambina le dice la malinconia passa, io sono qua, accanto a te, e la donna sente sul corpo quel senso di tenerezza.

La donna s'infila un pigiama, scaldato sul termosifone, e si siede a tavola. La cena è pronta: ci sono di nuovo gnocchi al pomodoro, la donna li spiaccica come lumaconi sul pavimento, e la bambina dice non importa, ci penso io; prende dello scottex e pulisce.




La donna e la bambina si mettono a guardare la TV, c'è un bel film dice la bambina, ma poi si alza e va in cucina. La donna sente le voci della TV e i rumori dei piatti infilati in lavatrice. Poi la bambina si abbandona sul divano e la donna sente il ronzio dei suoi pensieri.

È ora della nanna: la donna segue la bambina e augurano la buona notte a una serie di cose inanimate, la casa di fronte, la cucina dell'Ikea, lo spazzolino da denti.

La donna si rigira nel letto, non ha niente a cui aggrapparsi, sgombra com'è del peso della vita quotidiana. 
Si mette in ascolto dei sogni della bambina.














martedì 8 ottobre 2013

Il cuore punge.

"Il cuore punge", ha detto babyP mentre aspettavamo l'autobus, mano nella mano, come due vecchietti sposati da cinquant'anni.

Il cuore non accarezza e non strangola, non lecca e non pugnala, ma punge.

Gli aculei del cuore sono come le setole delle spazzole per fare la piega. Le spazzole termiche per capelli, grosse come rotoli di carta igienica e ispide come vecchi zerbini sui pianerottoli.



Ti sei punta quando hai ricevuto un bigliettino - un origami simile a un fiore di loto - dal vicino di banco del tuo compagno delle medie, quello coi denti bianchi e diritti senza placchette di metallo. Sfogliavi i petali e leggevi ti vuoi mettere con me?, lo richiudevi veloce, scottava, e poi lo riaprivi per crogiolarti nell'amore. Lo hai fatto aspettare un po' per dirgli sì, lo voglio, perché le suore ti avevano insegnato la dote della pazienza o della malizia, e, mentre contavi fino a cento, hai visto almeno altre sette tue compagne giocare col fiore di loto, e pregare sommessamente uno, due, cento.

Ti sei punta quando ti ha detto io più di così non ce la faccio: ti ho preso l'attico, la poltrona di Fukusawa e le fedine di Cartier per i tuoi ossicini di pollo. Un bambino non ce la faccio a comprarlo.

Ti sei punta quando sei uscita da quelle lenzuola, e te le sei avviluppate attorno alla vita - per nascondere un sedere floscio come un soufflé mal riuscito -, e non c'erano più lenzuola sul letto, solo lui, nudo e senza difese. Hai iniziato a camminare come una principessa con lo strascico verso il bagno, e lui ti ha chiamato. Ti sei voltata, con occhi gialla da gatta, e lui ha iniziato a tirare un angolino dello strascico, e tu hai pensato ha voglia di giocare, e ti sei messa a piroettare mentre lui riavvolgeva il lenzuolo. Si è coperto le gambe, il petto e fin sulle orecchie, ha dato le spalle al tuo sorriso, e si è messo a dormire.



Il cuore, come le spazzole termiche, brucia, tira, e soprattutto punge, ma pare che lasci la possibilità di una vita setosa, soffice e brillante.




venerdì 4 ottobre 2013

Il panlogismo dell'autunno.

Una madre della città d'autunno è malata.

Nei mesi di giugno e luglio e agosto, mentre si sollazzava al mare, ha organizzato l'autunno. Sfogliava Stop e pensava alle foglie secche da incollare sui quaderni, leccava una buccia d'anguria e s'immaginava i cachi disposti nella fruttiera, s'immergeva con gli occhialini appannati nel mare e prendeva in considerazione un acquario, da regalare a sua figlia.





Si è organizzata per benino, ruminando a lungo, insieme ai semini d'anguria, quella frase di Hegelciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. La realtà non è nient'altro che il dispiegarsi - faticoso - della ragione: basta riconoscerla, anche nelle sue forme folli.
L'autunno sarebbe stato quello che doveva essere: una serie infinita di facce, atti e oggetti annegati nel nuovo acquario, trasparente e silenzioso.
Facce che dicono no, con occhi velocissimi che vanno da destra a sinistra e da sinistra a destra, atti di ribellione che dicono no, con nasi piccoli che colano lacrime e muco, e oggetti che dicono no, con pulsanti impazziti. Sarebbero finiti tutti nella pattumiera del sistema.

Non ci sarebbe stato posto, in questo autunno, per ciò che sta fuori dal sistema, che non piega le labbra in un sorriso e la schiena in un inchino. 
Nell'acquario l'acqua è immobile; le facce, gli atti e gli oggetti galleggiano a pancia in su, inanimati, dolci e innocui.

La madre della città d'autunno ha impacchettato le passioni, e le ha messe fuori dalla porta.
Ha riposto nelle scatole di cartone i vestiti leggeri dell'estate e le espadrillas a pois. Ha tenuto un golf di cotone. Ha conservato e superato.
Ha chiuso le orecchie, come fanno i bambini girando una valvola immaginaria all'interno del padiglione, e non ha sentito arrivare l'inatteso.

Le giornate si sono fatte più fresche e buie e corte, e la speranza che riponeva nell'autunno si è riavvolta di scatto, come un metro, e le ha pizzicato le dita.

È malata, ora, e si aggira con una camicia da notte di quand'era incinta, con una pancia di stoffa vuota, tra corsie brulicanti di bambini, lacrime, multe insolute, mariti, telecomandi, capelli bianchi, capiufficio, faldoni, tisane depuranti.

È malata, e sente la sua voce rimbombare dentro l'acquario.